Paolo Croci

Gli Amici del Teatro - Settanta anni di tradizione a Mozzate

Innovazione in teatro 

E finalmente torniamo a parlare della Compagnia che più di ogni altra attraversa il filo rosso che conduce all'attuale filodrammatica. Dopo che nel 1957 si sciolse la Compagnia guidata da Dino Landoni e Carlo Talamone, Mozzate non restò priva di spettacoli teatrali, che furono messi in scena dalle altre filodrammatiche locali, come abbiamo appena visto. Ma ben presto accanto a queste si affiancò la Compagnia che ebbe a capo il giovane Giancarlo Borroni (anche se sporadicamente Carlo Talamone curò la regia di alcuni spettacoli). 

I suoi primi lavori risalgono al 1962-63 e continuarono fino al 1969, quando, per volontà di tutti, la Compagnia si trasformò in Gruppo con fini diversi da quelli teatrali. Giancarlo Borroni e sua moglie Maria mi hanno accolto una sera nella loro casa e mi hanno raccontato la breve storia di quest'esperienza. Desidero riportarla quasi con le loro stesse parole, perché da sole esprimono la febbrile attività di ricerca e sperimentazione che caratterizzò quegli anni. 

La spinta che unì i giovani della Compagnia, all'inizio solo maschi, fu senza dubbio l'amicizia e la voglia di fare teatro insieme, per crescere insieme. Anche questa filodrammatica visse le situazioni di artigianato teatrale, proprio come le precedenti. Ma la scarsità dei mezzi tecnici, scenografici ed economici non li fermò mai nella realizzazione dei loro lavori. L'idea che li guidò sin dall'inizio fu quella di inserirsi nel solco della tradizione, innovandola, senza rifiutare nulla delle esperienze precedenti ma ricercando nuovi indirizzi. Per questo tra gli spettacoli proposti si spaziò dalla rivista e dalla commedia brillante, al dramma e al teatro di sperimentazione. Accanto a vecchie soluzioni tecniche ci fu sempre la ricerca di novità, non per il gusto fine a se stesso, ma per scoprire nuovi orizzonti, per sondare nuove possibilità, per crescere nella cultura e nella conoscenza. 

I primi spettacoli furono alcune riviste e già da qui la tradizione mozzatese subì una prima trasformazione. Sogno di una notte d'estate, portata sulle scene verso il 1963, offriva al pubblico quadri comici e sketch intervallati da musica beat: infatti furono invitati a suonare i Blacks Birds, un gruppo di Como famoso in quel tempo soprattutto per aver inciso dischi e aver portato al successo Black is black, una canzone inserita anche nello spettacolo mozzatese. Una fiaba per ragazzi, lo spettacolo che seguì, si distinse invece per la scelta dei costumi e per le luci: i primi furono confezionati con la cartapesta dalla mamma dello stesso Borroni e ottennero un successo pari a quelli noleggiati nelle grandi sartorie, le seconde videro l'introduzione per la prima volta delle lampade a luce nera, dette "di Wood", che creano un effetto surreale. Le due commedie brillanti Ci penso io e Che succede a mezzanotte, in scena verso gli anni '65-'66, furono realizzate per il divertimento degli stessi attori. Estremamente spassose, anche se non propriamente facili da recitare, si ricordano perché in esse uscì prepotente la vis comica di molti protagonisti, tra i quali Cesare Botta, che ebbe un successo personale soprattutto nella replica di Che succede a mezzanotte tenutasi a Caronno Pertusella. Ma costui, nonostante i buoni auspici, dopo questa commedia decise di ritirarsi dalle scene. L'assegnazione delle parti in questi spettacoli non veniva fatta per provino, ma in base alle doti personali dei singoli attori; infatti sin dalla ricerca del testo da rappresentare si era attenti a sceglierne uno nel quale potessero essere messe in luce le caratteristiche della personalità di ciascuno, anche se poi, durante le prime letture a tavolino, talvolta capitava di dover cambiare le parti, prima dell'assegnazione definitiva. Altre volte era il testo a subire modifiche, sia per adattarlo agli attori, sia, soprattutto, per le scarse possibilità del palcoscenico del Teatro, che non permetteva virtuosismi scenici. Le prove avvenivano sempre sul palcoscenico, anche quelle "a tavolino": infatti veniva posto un tavolo sul palco e gli attori vi si sedevano attorno. 

In questo periodo anche Carlo Talamone propose alcuni spettacoli, sulla linea del rinnovamento: una seconda edizione de Il muro di vetro, con nuovi attori e nuovi intenti, e L'ultima trincea versione in due tempi tratta da Escuadra hacia la muerte di Alfonso Sastre. Quest'ultimo fu rappresentato il 4 ottobre del 1964 per l'ingresso del nuovo parroco, don Giovanni Luoni e con il nome di "Compagnia Amici del Teatro". Ma si era sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo, di veramente provocatorio e nello stesso tempo di impegnativo. 

Giancarlo Borroni da parecchio girava per librerie e biblioteche, leggendo e scartabellando per trovare il testo adatto; le mete preferite erano un negozietto milanese di fronte al Piccolo e la biblioteca di Brera. Finalmente venne scelto il testo. Era il 1968, l'anno della contestazione studentesca, l'anno che contribuì a cambiare un'epoca, a capovolgere il modo di pensare dei giovani. Era il periodo in cui ogni cosa veniva messa in discussione e tutto era oggetto di discussione; gli anni in cui si incominciarono a conoscere alcune realtà terribili della situazione giovanile (la droga, la mancanza di ideali, la solitudine) e in cui non si provava timore a provocare, a mettere a nudo, talvolta troppo violentemente o arbitrariamente, le ipocrisie della società. In poche parole, gli anni in cui si pensava di poter realmente cambiare il mondo. Anche i giovani di Mozzate non furono immuni dalla ventata di "rinnovamento" che scosse l'occidente. Certo, senza la violenza e gli estremismi di altre parti, ma anche loro volevano far conoscere, educare, riflettere e far riflettere. Per questo la scelta dei lavori da portare in scena, in quel periodo fu molto laboriosa e meditata. 

Si giunse così a Un cappello pieno di pioggia, tre tempi di Michael V. Gazo, un testo impegnato sul problema guerra-droga-rapporti familiari, che segnò l'incontro con il teatro d'autore. Questo lavoro era già stato messo in scena da attori professionisti (Giorgio Albertazzí, Anna Proclemer e Mario Carotenuto) ed era difficile e impervio: il fatto che una compagnia amatoriale volesse cimentarsi in un compito così arduo era segno di raggiunta maturità nel cammino di ricerca teatrale. L'argomento era tabù: a quel tempo (che oggi purtroppo sembra tanto lontano) non si parlava di droga, anche perché era un problema di scarsa incidenza nel nostro paese, né si volevano sviscerare i retroscena del rapporto di coppia o il dramma del tradimento. Ma si volle tentare lo stesso: non si ebbe mai timore che il pubblico avrebbe rifiutato questo spettacolo, anche perché lo stesso regista adattò il testo alle esigenze reali della Compagnia, e volle mitigare e alleggerire alcune scene e alcune pagine oggettivamente difficili da proporre al pubblico mozzatese; puntò maggiormente l'attenzione sul dramma personale del protagonista, tenendo in sottofondo le questioni dei complessi rapporti con il fratello e della vicenda amorosa con la cognata. Anche alcuni discorsi crudi vennero addolciti: ma nonostante questo il testo non fu stravolto, anzi, fu posta in assoluta evidenza l'azione pura. 

Con questo spettacolo si iniziò una nuova tradizione, sulla scia della prima edizione de Il muro di vetro: si propose un testo difficile, con soluzioni tecniche e sceniche d'avanguardia. Alla base della regia ci fu il tentativo di fermare l'attenzione su alcuni aspetti della realtà, di fotografarne le pieghe critiche, le sfumature dolorose e alienanti e quindi di provocare il dialogo. Lo spettacolo iniziò con un flash sul pubblico, a sipario chiuso e a luci spente. Era una foto a una porzione di realtà: il palcoscenico sarebbe stato la camera oscura nel quale sviluppare l'immagine di questa realtà, che poi avrebbe avuto vita propria. E fu proprio così. Dopo che il flash ebbe scosso gli spettatori, apertosi il sipario, i tre colori fondamentali (rosso, verde e blu) cominciarono a percorrere il palco sul quale erano fermi gli attori, finché riunitisi in un solo punto crearono il bianco, fissarono cioè l'immagine come sulla carta fotografica e gli attori, riproduzione della realtà, cominciarono a recitare, prendendo vita. Ma i colori furono utilizzati anche nel corso dello spettacolo per sottolineare le situazioni e le sensazioni fondamentali: con il "codice colori", così fu chiamato, ad ogni sentimento venne associato uno dei tre (per esempio la violenza era il rosso). 

Anche le musiche furono ricercate per trasmettere sensazioni: la canzone che apriva lo spettacolo (L'amore è blu), fu scelta per la sua funzione di anticipazione simbolica del "codice". E' curioso sottolineare che quando la RAI trasmise la riduzione televisiva de Un cappello pieno di pioggia utilizzò proprio "L'amore è blu" come sigla di testa! 

Un'altra grossa novità dello spettacolo, pioniere in questo senso, fu la partecipazione a pieno titolo anche di figure femminili: per la prima volta due ragazze recitarono in una Compagnia maschile e una di esse fu addirittura co-protagonista. Infine in questo spettacolo si cercò il coinvolgimento globale del pubblico: gli attori entrarono e uscirono di scena passando dalla platea e alcuni recitarono tra il pubblico stesso. Lo spettacolo andò in scena il 20 febbraio 1969, con notevole successo di pubblico, che apprezzò l'avanguardia proposta dal regista. In seconda serata, invece vi fu anche il dibattito sulle tematiche emerse dal testo: dopo la rappresentazione, su invito, un gruppo di gesuiti dell'Aloisianum di Callarate, il CGM (Centro Giovanile Mozzatese), altri spettatori e gli attori intavolarono una discussione sul lavoro. I gesuiti erano stati invitati dalla Compagnia perché la loro filodrammatica realizzava alcuni spettacoli, con testi scritti da loro, su temi e problemi di attualità. 

A Mozzate nel 1968, mentre già si stavano facendo le prove per Il cappello, avevano proposto Il Pane, un dramma sull'ipocrisia dell'uomo. Il dibattito di quella sera si polarizzò su due tesi contrapposte. Per taluni si trattava di una commedia piuttosto astratta in quanto si ambientava in America, con aspetti di vita che assumevano, per circostanze puramente contingenti ed esterne, risvolti patologici, lontani comunque dalla norma di vita usuale e quotidiana. A questa tesi si contrappose quella di coloro che sostennero la sostanziale validità del testo, facendo notare come la situazione italiana presentasse notevoli assonanze con quella americana (l'alienazione spersonalizzante del lavoro, la droga come tentativo di evasione e surrogato della volontà, la crisi della famiglia ecc.), mettendo in risalto la conclusiva positività della commedia che terminava, dopo aver testimoniato una crisi di valori, con una riproposta di quelli tradizionali, i soli in grado di rispondere alla domanda integrale dell'uomo. 

Lo spettacolo fu replicato anche fuori Mozzate, a San Martino e a Tradate ottenendo lo stesso buon successo. Ormai lo schema era rotto: si era iniziata la nuova tradizione, impegnata, o, per lo meno, più attenta ai problemi dell'uomo e della società. 

Billy il bugiardo sembrò l'opera più adatta per proseguire questo discorso. Ne Un cappello pieno di pioggia si parlava di droga e di disgregazione della società, ora si volevano mettere a nudo i drammi del fallito rapporto tra padre e figlio, il ruolo della famiglia nella società e l'insanabile dicotomia tra immaginazione e realtà. Si voleva sottolineare quanto il desiderio fosse distante dalla realtà, come la vita apparisse complicata e impossibile da realizzarsi. «Volto una pagina nuova ogni giorno dice il protagonista ma le macchie si vedono lo stesso». «Forse una pagina non basta. Dovresti voltare un volume intero». Qui sta la morale di tutto il lavoro: il volume da voltare è quello della nostra vita, e ha lo spessore che noi gli conferiamo con le nostre azioni. Questo il messaggio del testo così come l'autore, che visse un'inquietudine esistenziale placatasi solamente con la conversione al cattolicesimo, voleva fosse inteso. Così vollero rappresentarlo gli attori; ma la forza comica sprigionantesi dalla commedia fece sì che il pubblico non cogliesse fino in fondo la problematica esistenziale che vi soggiaceva. 

Lo spettacolo andò in scena pochi mesi dopo Un cappello, il 31 agosto 1969, per la festa del paese e fu l'ultimo che la Compagnia riuscì a portare sulle scene. Si voleva proseguire il discorso intrapreso, puntando sull'analisi più approfondita di un altro aspetto della realtà: i rapporti uomo-donna. Per questo fu scelta la commedia La gatta sul tetto che scotta che già aveva avuto una riduzione cinematografica (con protagonisti Liz Taylor e Paul Newman). Anche qui Borroni apportò alcune modifiche al testo, per alleggerirlo in alcune sue parti e per smussare alcune scene "scabrose". La compagnia era entusiasta per il testo splendido e attuale, accattivante e profondo e incominciò a provare. 

Tuttavia di lì a poco gli interessi della Compagnia avrebbero subito un cambiamento di rotta, in seguito alla scomparsa di uno dei componenti: Sandro Moiana. Infatti gli amici riunitisi nel novembre di quello stesso anno, il 1969, decisero all'unanimità di sciogliere la Compagnia teatrale e di fondare un Gruppo a lui intitolato: il "Gruppo Amici di Sandro". Per ricordarlo nella sua passione per la l'arte pittorica si decise di indire un Concorso di pittura per i ragazzi accanto a una mostra di pittori dilettanti. D'accordo con le scuole di Mozzate l'iniziativa andò in porto. Il primo anno vi fu una mostra postuma delle opere di Sandro, insieme con i quadri dei ragazzi, nei successivi quattro si sviluppò il concorso, che aveva come giudici, tra l'atro i pittori Rossi di Saronno, Calderani di Como e Turconi di Turate, grazie anche all'intervento della famiglia Moiana, la quale offrì sempre il primo premio. La mostra dei dilettanti venne sempre realizzata con l'autotassazione dei componenti il Gruppo e con il finanziamento degli stessi pittori espositori, che sostennero sempre le spese gestionali. 

Prima di concludere questo capitolo mi sembra opportuno sottolineare il valore profondo di questa iniziativa. L'amicizia, nata tra le scene e i testi, legò così saldamente i componenti della Compagnia da rinunciare allo stesso teatro, pur di ricordare una persona attraverso l'attività che più amava, anche se essa impegnava molto di più e con una professionalità diversa da quella acquisita recitando. E' un simbolo eloquente dei rapporti umani creatisi nelle singole Compagnie: l'uomo prima di tutto, vivendo nell'amicizia e nella solidarietà. 

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